Quella paura di tornare a casa

Nelle parole di Umberto Fiorentino, docente di Religione ed educatore presso la comunità alloggio per minori “Peppino Brancati”, di Torre Annunziata, il desiderio di vita nuova di Luigi Caifa: un desiderio che non può non far riflettere.

Cinquantasette secondi. È questa la durata di un video diffuso dai media, che testimonia i tragici momenti della rapina in cui Luigi Caiafa, di 17 anni, è rimasto ucciso.  All’alba del 4 ottobre scorso, assieme a un complice anch’egli giovanissimo, Luigi impugna un’arma – da quanto emerso una pistola giocattolo – si avvicina a un auto parcheggiata in via Duomo, a Napoli, per farsi consegnare dagli uomini a bordo soldi e oggetti di valore: sopraggiungono i “falchi”, parte un colpo dai poliziotti, Luigi muore, il complice si arrende. L’indomani è un putiferio di analisi e giudizi - naturalmente sommari - che creano il vuoto trambusto che ostacola ciò che andrebbe fatto (oltre il lavoro dei magistrati, s'intende): riflettere, meditare, approfondire. Perché Luigi, che nel buio impugnava una pistola per rapinare, non era di certo un eroe, ma i suoi 17 anni suggeriscono con forza che non ci si può limitare a registrare i fatti ma bisogna guardare attraverso di essi. La soluzione più semplice sarebbe quella trovata da tanti commentatori social: "Se fai una rapina, questo è quello che ti meriti”, “meno uno”, e così via. Ma se un Paese non si domanda attraverso quale percorso un adolescente - anziché andare a scuola, uscire con la fidanzata e giocare a pallone - possa finire ammazzato in un conflitto a fuoco con gli agenti - e quale sia eventualmente la parte di responsabilità in questo degli adulti, allora deve dichiarare la bancarotta morale, perché farisaicamente condanna la colpa individuale (e chi la vuole negare) dimenticando che la biografia di ciascuno è sempre conficcata in un contesto che né determina né giustifica, ma influisce, anche se per comodità non lo ammettiamo.

Nelle ore successive ai tragici fatti, Umberto Fiorentino, docente di Religione ed educatore presso la comunità alloggio per minori “Peppino Brancati”, di Torre Annunziata, legata ai padri Salesiani, ha scritto su Facebook una lettera aperta indirizzata a Luigi: questi, infatti, fermato per reati diversi da quelli che l’hanno visto protagonista il 4 ottobre, era stato affidato alla comunità torrese in alternativa al carcere. «Visto quello che ha fatto potrà sembrare strano a quanti non l’hanno mai conosciuto, ma vi posso assicurare che Luigi era un ragazzo sensibile, un ragazzo in fondo buono». Luigi – mi racconta Umberto – era giunto in comunità nei primi mesi dell’anno scorso. «Essendo soggetto a misura cautelare, era sempre accompagnato dagli operatori. Si è sempre comportato bene e fin da subito, grazie ai permessi ottenuti, si è messo in gioco, ha tentato davvero di dare una svolta, iniziando a lavorare in una pizzeria del territorio, con la quale c’è un contratto di collaborazione. Sul lavoro non ha mai dato problemi: era serio, rispettoso, gli volevano bene, e aveva imparato anche abbastanza bene il mestiere, insomma era stimato. Quando è arrivato il lockdown – continua ancora Umberto – la pizzeria ha chiuso e anche lui ha sospeso la collaborazione, ma dava comunque una mano nel laboratorio-pizzeria dei salesiani “Mani in pasta” . In quelle settimane, il laboratorio aveva il permesso di fare pizze da portare alle famiglie indigenti del quartiere, e lui era lì, da valido aiutante».

Mentre parliamo, leggo gli sms di amicizia e augurio che Umberto e Luigi si sono scambiati nel giorno in cui questi ha iniziato la messa alla prova esterna, lasciando la comunità: “Ricordati che hai un cuore buono” è il messaggio di augurio che Umberto invia al giovane. «Era anche un ragazzo sveglio – riprende il racconto – perché ormai la strada l’aveva conosciuta ma in comunità stava bene. Ricordo questa cosa: a volte in casa capitava che lui, come altri, potesse fare qualcosa che richiedesse un rimprovero – cosa da nulla, roba da adolescenti – bene, sai qual era la punizione che gli promettevo? “Se non la smetti dopo non ti faccio andare a lavorare”, gli dicevo, perché a lui piaceva tanto andarci. Questo per far capire chi era». Però, in questo contesto di ritrovata serenità, delle ombre erano comunque in agguato. «Luigi era anche un ragazzo tormentato: con l’avvicinarsi del processo, di notte iniziava a stare male, a fare domande, e nei suoi occhi la paura». Di cosa? «La paura di tornare a casa. Non che non volesse rivedere la famiglia, ma paura di rientrare nel contesto nel quale era finito a delinquere, un ambiente nel quale sapeva sarebbe stato più difficile vivere in un certo modo, dove sarebbero venute meno determinate protezioni, tutele. Anche per questo, il giorno in cui ha lasciato la comunità, Luigi piangeva. “Che ti credi” – mi diceva – “che io non sappia quali sono le cose buone? Io lo so quali sono le cose giuste, ma non ti pensare che è facile una volta a casa». E questa paura di tornare non era solo sua, precisa Umberto: «Noi accogliamo tanti ragazzi di territori difficili di Napoli e provincia, e loro dicono spesso: “Voi non capite che significa crescere in un certo ambiente, e non capite che significa tornare là. Per noi è facile essere bravi qui, ma rimessi nel nostro quartiere, nella nostra vita solita, è più difficile”».

Anche qui, dinanzi a queste testimonianze, possiamo seguire due vie: leggerle sbrigativamente come autoassoluzioni, o provare a capire, a setacciarle per entrare in un codice che non è il nostro, ma che per tanti ragazzi è invece grammatica del quotidiano. «È un po’ come se questi ragazzi, rimessi nel loro contesto - con famiglie difficili, parenti in carcere, una rete di amicizie contigua alla logica criminale o comunque borderline, venissero risucchiati in un imbuto. Non è automatico, ma succede». Cos’è accaduto quando è arrivata la notizia? «Quando abbiamo saputo – afferma Umberto - eravamo devastati. A me è giunto un messaggio, poi sono andato come tutti su internet per capire, ho visto alcuni commenti di odio sui social, purtroppo li ho letti, ma sto tentando di dimenticarli. Nessuno vuole giustificare, naturalmente: quando abbiamo saputo quel che aveva fatto ci siamo sentiti amareggiati, sorpresi, delusi, un mix di sensazioni. Ma come? Luigi? Una rapina? Impugnando un’arma?: non ce l’aspettavamo. E ovviamente il dolore, per la perdita di un ragazzo che poteva riprendere in mano la sua vita, che sembrava potesse uscirne. Forse non ci ha creduto abbastanza. Ha sbagliato e ha pagato un prezzo altissimo, definitivo».

Gli occhi di Umberto guardano lontano, quasi a voler scorgere una luce, un perché, che però non si danno. A noi resta l’obbligo di capire che la vicenda di un ragazzo di 17 anni che tenta di risolvere la vita con una rapina, e finisce in una pozza di sangue sull’asfalto, è una tragedia troppo grande per essere solo una questione da codice penale e  giustizia retributiva: perché in ciascuno di noi c'è un punto accessibile al bene, ma per alcuni è un po' più difficile.





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