Usiamo i sodi delle mafie per salvare i beni confiscati

L'intervista a Carlo Borgomeo, presidente Fondazione per il Sud: serve sostenere economicamente la ristrutturazione e l’avvio di gestione


«La Lombardia è al terzo posto nella classifica delle regioni col maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie, per cui non si tratta di un tema esclusivo del Sud». A parlare è Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione per il Sud, ente no profit che promuove percorsi di coesione sociale per lo sviluppo del Mezzogiorno. Si parla di beni sottratti alle cosche e del loro riutilizzo per scopi di utilità sociale: strumento importante per combattere le mafie sul piano materiale e simbolico, e anche per creare opportunità d’impresa.

Presidente, il meccanismo dell’assegnazione dei beni confiscati presenta però qualche intoppo.

Già quattro anni fa, Fondazione per il Sud stilò un documento insieme ad altre fondazioni importanti e al forum del Terzo settore, nel quale indicavamo quali erano, secondo noi, le riforme importanti da fare. Le riassumo in tre punti. La prima riguarda le risorse del Fug (Fondo unico di giustizia): il fondo è alimentato adesso dai soldi confiscati alle mafie – liquidi o anche azioni – che sono impiegati ad esempio per sostenere le attività delle forze armate, per il funzionamento dei palazzi di giustizia etc., cose molto importanti naturalmente, però a nostro giudizio quelle risorse potrebbero essere ancora meglio utilizzate se finanziassero iniziative di valorizzazione dei beni confiscati; in secondo luogo – e si tratta di un punto legato al precedente – l’Agenzia dei beni confiscati (l’ente di diritto pubblico che gestisce l’iter dei beni confiscati, dalla fase di sequestro fino alla loro destinazione, ndr) dovrebbe diventare un ente pubblico economico con contratti al personale regolati dal diritto privato, controllato dallo Stato.

Insomma, l’Agenzia andrebbe separata dalla pubblica amministrazione.

Sì, e dovrebbe avere tutte le competenze su ogni tipo di risorsa confiscata, perché così si può meglio realizzare l’obiettivo cui accennavo prima: le risorse, in una logica unitaria, vengono utilizzate per i beni confiscati. Tra l’altro, con un meccanismo del genere, l’agenzia potrebbe avere le competenze necessarie per fare questo lavoro: servono immobiliaristi, persone che conoscono le industrie, uomini esperti di finanza, e così via. I
funzionari dell’agenzia fanno un lavoro straordinario, ma si tratta pur sempre di personale distaccato dalla pubblica amministrazione. Infine, quando si confisca un’azienda, bisogna ridurre al minimo il periodo delle gestioni degli amministratori giudiziari, perchè si perdono soldi e tempo. Guardi, basta davvero poco per capire se una certa azienda, una volta sequestrata e recisi i rapporti con la mafia, può sopravvivere o no. Se non può, è inutile perdere tempo: si chiude, i lavoratori possono essere messi in una cassa integrazione speciale. Le aziende rimesse in moto sul numero di quelle confiscate sono ancora pochissime.

Questi sono rilievi di ordine generale. Ultimamente, però, lei è intervenuto, proprio sulle pagine di Avvenire, per segnalare alcune criticità dell’ultimo bando dell’Agenzia per i beni confiscati, che scade il 31 ottobre.

Il bando prevede di assegnare direttamente a soggetti del Terzo settore mille beni confiscati, e questo accelera e semplifica. In più, le assegnazioni sono definitive: e questo evita situazioni paradossali in cui progetti di valorizzazione che raggiungono buoni risultati, vivono nell’incertezza della scadenza della concessione. Quindi ci sono due importanti innovazioni e vanno salutate positivamente. Ma il bando ha un limite. I soggetti che si vedranno assegnare il bene non avranno presumibilmente le risorse per fare due cose importanti: affrontare le spese di ristrutturazione (difficilmente questi beni sono pronti all’uso), e quelle relative all’avvio della fase di gestione delle attività. Nel bando queste risorse non ci sono: vi è uno stanziamento simbolico di un milione di euro che per mille progetti. Si tratta di 1000 euro a progetto, fa ridere. Cosa può succedere? Che i soggetti del Terzo settore non partecipino al bando, o che si vedano assegnare un certo bene, ma poi non possano effettivamente utilizzarlo. Per questo ho proposto che 200 milioni di euro che dall’Agenzia vanno al Fug - soldi o titoli confiscati alle organizzazioni criminali – vengano messi sul bando. Si tenga presente che 200 milioni sono solo una percentuale di tutte le risorse che dall’Agenzia sono trasferite al Fondo unico di giustizia.

Qualcuno ha obiettato che assegnare i beni direttamente ai soggetti del Terzo settore, senza passare dalle amministrazioni comunali, le più vicine ai beni, può aumentare il rischio di fare scelte sbagliate. Cosa risponde?

I comuni devono essere coinvolti non c’è dubbio, ma l’affidamento diretto funziona meglio. Non parlo per partito preso. Fondazione per il Sud ha seguito 102 progetti per la valorizzazione di beni confiscati alle mafie e ha fatto quattro bandi, e sappiamo bene cosa vuol dire per gli enti del Terzo settore avere a che fare coi comuni: in qualche caso funziona, ma in altri è un disastro. Anche perché i comuni, tranne quelli più illuminati, in certi casi danno delle concessioni brevissime – 2 anni, 3 anni – e diventa difficile.

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