Mai senza l'altro

Nella dinamica del "riconoscimento", l'Io e il Tu si scoprono legati in radice. Non c'è vera identità senza spazio per l'alterità.

a cura di Italo Prisco

seminarista 


Desideriamo che il nostro esser-così sia riconosciuto dall’Altro come un valore in sé. Desideriamo ardentemente che l’Altro ci apprezzi per come siamo invece che per come dovremmo essere. Il nostro più profondo bisogno, infatti, è quello di essere amati così come siamo, nonostante i nostri limiti, le nostre debolezze e le nostre colpe. Ripenso al modo in cui Sònja risponde alla confessione di Raskòlnikov del suo assassinio (Dostoevskij, Delitto e castigo): è il manifesto del riconoscimento dell’Altro nelle sue dinamiche.

«'Che cosa avete fatto, che cosa avete fatto di voi stesso!' esclamò disperata e, rialzatasi di scatto, gli si gettò al collo, lo abbracciò e lo strinse forte tra le sue braccia. […] Egli non cercò di resistere: due lacrime sgorgarono dai suoi occhi e gli inumidirono le ciglia. 'E così, Sònja, non mi lascerai?' disse lui, guardandola con una sorta di speranza. 'No, no, mai, e ti seguirò dappertutto!' gridò Sònja». (1866,
729).

Ciò che anima il gesto di Raskòlnikov, il suo desiderio di confessare, è la brama di riconoscimento. Sònja sente pienamente, riconosce e corrisponde al suo desiderio. La sua compassione circoscrive e abbraccia l’ambivalenza di Raskòlnikov (un ex studente di legge ventitreenne che commette un omicidio nella convinzione di essere abbastanza forte per affrontarlo).

Il riconoscimento non è comprensione poiché non è mera identificazione degli stati mentali che causano le sue azioni. Non è neanche semplice approvazione o consenso, in quanto non è un tipo di giudizio o di posizione etica rispetto all’Altro. Si tratta, piuttosto, di una prontezza emozionale e intellettuale, molto più complessa, a riconoscere le ragioni dell’altra persona (G. Stanghellini). Il riconoscimento si pone all’interno di una fragile e sempre tensionale esperienza di relazionalità o esperienza del Noi in cui sono consapevole della sventura dell’Altro e cerco di sintonizzarmi con essa. Non è una modalità predefinita di un generico atteggiamento empatico come la spontaneità di Sònja sembrerebbe suggerire. Nel romanzo emerge anche come Sònja lo incoraggi a diventare credente e a confessare. Il riconoscimento è sempre promozione dell’Altro. È un stile di vita che richiede, quindi, una formazione e un addestramento – è come una palestra –, per riconoscere che il «mondo della vita» (Husserl) dell’altra persona non coincide con il mio e imparare, così, a neutralizzare il mio atteggiamento naturale, che mi porterebbe a valutare e a giudicare l’esperienza dell’Altro – come se avesse luogo in un mondo uguale al mio – per tentare di ricostruire le strutture esistenziali del mondo in cui l’Altro vive e cercare di comprendere il significato dell’esperienza come situata in un mondo che è di fatto simile al mio, ma anche costantemente e indelebilmente segnato dalla particolare esistenza dell’altra persona.

Questo ci porta a consapevolizzare una certezza della nostra esperienza umana: non si dà, mai, il «dovere dell’identità» senza il «coraggio dell’alterità» e viceversa (Papa Francesco). Come scrive il gesuita Secondo Bongiovanni: «Non si dà altra via: la fraternità diventa un compito credibile – non può mai essere una meta senza l’abbandono di alcune (apparenti) sicurezze che impediscono l’incontro umano – iniziando a porre gesti gratuiti e rischiosi di mutuo riconoscimento che consentono di smascherare le strutture difensive o offensive delle nostre identità». L’episodio che racconta Dostoevskij è un’esperienza di «riconoscimento mutuo» (P. Ricoeur), che parte sempre da un comportamento gratuito capace di eccedere la logica economica nei rapporti sociali abituali (do ut des). Non esclude la dissimmetria presente nel rapporto io-altri: «l’uno non è l’altro; si scambiano i doni ma non i posti. […] Nel cuore della mutualità viene preservata una giusta distanza, la giusta distanza che integra l’intimità con il rispetto» (P. Ricoeur). Un tale evento è letteralmente senza prezzo, senza misura, eccedente ogni calcolo – Sònja non è mossa da alcun interesse, anche perché una delle vittime era una sua cara amica –: il gesto del donare non si arresta allo scambio reciproco, ma coincide con un riconoscimento gratuito e riconciliante della dignità dell’altro e della sua esistenza. Un tale dono non può essere né rivendicato, né preteso, ma appartiene alla gratuità che è capace di ri-stabilire legami umani. Una volta compiuto, il gesto trascende il donatore stesso e vive nell’apertura del legame a cui ha dato origine.

Ecco che identità e alterità diventano epifania di Cura nel modo di proporsi nella storia delle relazioni: la loro qualità si dà solo nella concretezza del vissuto, di ciò che accade nel frammezzo di un legame, anche se attraversato da momenti alterni di estraneità e prossimità, di distanza e di vicinanza, di tensione e di festa. Infatti, la mutualità del riconoscimento non coincide con uno stato definitivo, ma si realizza attraverso singole e fragili esperienze di relazioni pacificate nella storia.

Un riconoscimento donato e ricevuto, vero e proprio miracolo, si rivela essere, dunque, una co-naissance,  per dirla con Merleau-Ponty, come se si nascesse insieme agli altri. E, proprio perché nessun uomo può riconoscersi senza l’altro, «ogni forma di riconoscimento è già sempre una forma di riconoscenza verso l’altro» (S. Bongiovanni sj). Perciò, una seria esperienza di mutuo riconoscimento, in fondo, non è altro che una riconciliante professione di gratitudine: ti ringrazio perché esisti.







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