Aree interne: dal confronto dei vescovi nuove prospettive di ministerialità

Alcuni vescovi italiani si sono ritrovati a Benevento per una riflessione sui territori interni del Paese. Presenti anche il presidente e il segretario della Cei, il cardinale Matteo Zuppi e monsignor Giuseppe Baturi. Tre i punti toccati dall'arcivescovo di Torino, Roberto Repole, nella relazione che ha dato il via alla riflessione: le possibilità insite nel considerare il ministero ordinato come differenziato e articolato al suo interno; la possibilità di immaginare nuove ministerialità laicali; e la considerazione di possibili analogie con il ministero episcopale.

Lunedì 10 e martedì 11 luglio una trentina di vescovi, provenienti dalle diverse regioni del Paese, hanno dato vita a Benevento alla terza tappa di un percorso volto a riflettere sulle cosiddette "Aree interne".

L'incontro è stato occasione di riflessione sul rapporto tra tessuto sociale e le problematiche e le opportunità pastorali in questi territori distanti dall'insieme dei servizi essenziali, spesso penalizzati nell'assegnazione delle risorse ed esposti a un processo di decremento progressivo della popolazione, che rischia di comprometterne le ricchezze ambientali e culturali.

La cornice di fondo è stata assicurata dalla riflessione teologico-pastorale di monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, con un intervento focalizzato sull'esercizio del ministero ordinato alla luce del mutamento ecclesiologico operato dal Concilio Vaticano II. In particolare, monsignor Repole, si è soffermato sulle prospettive con cui oggi affrontare nuove forme di presenza e di servizio ecclesiale in zone per molti versi disagiate: sono passaggi che – ha sottolineato – comportano un nuovo modo di concepire la figura del presbitero, a partire dalla rivisitazione del suo servizio di presidenza; si tratta di considerare il ministero ordinato come differenziato e articolato al suo interno; di valutarne le possibili analogie con il ministero episcopale; di immaginare nuove ministerialità laicali. 

Vescovi italiani a Benevento per le Aree interne
I vescovi italiani presenti a Benevento per un confronto sulle Aree interne (Foto: Ucs Diocesi di Benevento)

Superare i campanilismi e tutelare legami di solidarietà

Gli spunti offerti dal relatore hanno suscitato un vivace e fraterno confronto tra i vescovi, a testimonianza di una volontà condivisa di progettare l'azione pastorale con una rinnovata attenzione alla cura delle relazioni e della corresponsabilità per continuare ad accompagnare il cammino di fede delle comunità. Con sguardo pastorale è stata anche condivisa la preoccupazione sui rischi connessi alle proposte di autonomia differenziata: il timore è che possa indebolire i legami di solidarietà che promuovono la persona e rendono coesa la comunità nazionale.

Al riguardo il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, si è fatto voce della necessità di investimenti e infrastrutture che contribuiscano a contrastare le difficoltà legate allo spopolamento delle Aree interne. Nell'offrire la disponibilità e l'impegno della Chiesa, ha invitato anche i Comuni a superare ogni campanilismo e a lavorare insieme secondo una logica di rete. A livello pastorale – ha aggiunto – proprio le Aree interne possono diventare un indicatore che anticipa i problemi e chiede di ripensare la ministerialità in comunità rimaste senza la presenza stabile di un parroco.

Nelle conclusioni monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, ha incoraggiato ad assumere con rinnovata passione la missione ecclesiale di favorire l'incontro con Gesù Cristo all'interno delle concrete situazioni in cui oggi la nostra gente si trova a vivere. Serve – ha auspicato – una nuova spinta creativa che, alla luce della mobilità odierna, attivi pensieri, percorsi ed esperienze all'insegna della comunione e della solidarietà.

Il cardinale Zuppi, presidente Cei, a Benevento
Il cardinale Zuppi, presidente Cei, a Benevento (Foto: Ucs Diocesi di Benevento)

Voltare pagina? L’esercizio del ministero ordinato nelle zone interne: per una riflessione teologico-pastorale

La relazione di monsignor Repole a Benevento

Per le aree interne si possono indicare alcune prospettive. Esse riguardano la rivisitazione del servizio di presidenza del presbitero; le possibilità insite nel considerare il ministero ordinato come differenziato e articolato al suo interno; la possibilità di immaginare nuove ministerialità laicali; e la considerazione di possibili analogie con il ministero episcopale.

1.1  Rivisitazione del servizio di presidenza del presbitero

Uno dei vantaggi che la teologia emersa dall’ultimo Concilio ci consegna è quello di orientare ad una comprensione del ministero come servizio essenziale al fine di radicare continuamente la Chiesa nella memoria apostolica, attraverso l’esercizio del triplice munus. Ciò fa sì che anche l’annuncio della Parola e il governo servano a mantenere radicata la Chiesa nella testimonianza apostolica. In particolare, per il vescovo e per il presbitero ciò si esplica – pur in modo analogo – nel servizio della presidenza della comunità. Dunque non si può immaginare una presidenza dell’eucaristia che non abbia un qualche collegamento intrinseco alla presidenza della comunità, che nasce sempre dalla celebrazione eucaristica. Ma tale presidenza è un servizio affinché nessuna dimensione della Chiesa prenda una strada diversa da quella consegnataci dalla memoria apostolica.

Questo spiega perché non si può immaginare che vi siano ambiti della vita ecclesiale che si ritengano sganciabili dal servizio di presidenza del presbitero. Pensando, dunque, al servizio dei preti nelle zone rurali non si può prospettare – per parlare di uno degli snodi più importanti – uno sganciamento totale dal servizio del prete della dimensione amministrativa ed economica. La legale rappresentanza, sancita dal Concordato, traduce su un piano giuridico un principio teologico che dovrebbe però essere chiaro: quello dato dal fatto che il prete esiste per garantire che nessuna dimensione, neppure quella amministrativa ed economica, venga esercitata con finalità diverse da quelle della Chiesa, che si mantiene fedele alla testimonianza apostolica. Si può dunque dibattere circa il fatto che la legale rappresentanza sia la migliore traduzione giuridica possibile; ma non si può cercare delle soluzioni che mettano in campo una concezione del presbitero esclusivamente cultuale e magari sacrale, con il rischio forte di porre le premesse perché alcune dimensioni della vita ecclesiale, come quella amministrativa ed economica, vengano poi esercitate in maniera magari efficiente e competente, ma non secondo le finalità dell’esistenza e della missione della Chiesa.

Ciò non significa però che presiedere delle comunità e garantirne il radicamento apostolico si traduca nel fatto che il presbitero debba poi occuparsi in maniera diretta di tutti gli aspetti, accampando oltre tutto competenze che neppure ha. In questo senso, bisogna prospettare un altro sentiero rispetto a quello che di fatto è stato spesso assunto dalla messa in atto del magistero conciliare in questi sessant’anni. Spesso la pratica ha promosso una presidenza intesa come l’accollarsi da parte del prete di tutte le responsabilità e, talvolta, la sacralizzazione delle scelte operate in qualunque campo del suo ministero. Bisogna però essere lucidi su questo punto: affermare che il ministero del presbitero è un servizio di presidenza, che implica anche un’attenzione alla dimensione economica ed amministrativa, non significa ipso facto che l’unico modo di esercitare tale presidenza sia quello di una cura immediata di ogni questione o, peggio, una sacralizzazione di qualunque scelta compiuta, qualunque sia l’ambito di cui si parla.

Può venire in aiuto a immaginare altre forme di presidenza che possono essere molto utili nelle zone interne, un’altra prospettiva conciliare: quella del presbiterio, specie se si pensa il vescovo come interno ad esso e presidente anzitutto di esso.

In quest’ottica si può immaginare che la presidenza sia da leggersi più nella logica della episcopé, ovvero della sorveglianza, che non dell’azione diretta e immediata su ogni questione. Una sorveglianza il cui potere non è evidentemente ad omnia, ma relativo a ciò che concerne il possibile deragliamento della Chiesa dalla testimonianza apostolica. Forse è soprattutto nella specificazione dei confini del potere del presbitero che si potrebbe chiedere al Diritto degli interventi più precisi e puntuali, invece che invocare uno scollamento totale del ministero del presbitero da tutto ciò che concerne la dimensione economica ed amministrativa, che rischierebbe di compromettere aspetti importanti del suo ministero.

D’altra parte, quando si pensi alla presidenza nell’orizzonte di un presbiterio, si possono trovare prospettive interessanti per evitare di dover ritenere, in modo irrealistico, che ogni singolo presbitero sia dotato di analoghe qualità e carismi su tutto quanto concerne i tria munera. Questo proviene da una interpretazione del mutamento teologico sedimentatosi nell’ultimo Concilio che può avere effetti negativi quando pensiamo ai preti nelle zone interne, in quanto può indurre all’idea che un prete valga semplicemente l’altro e che a chiunque si possano chiedere le medesime cose: salvo il fatto che la dimensione personale smentisce sistematicamente un tale pensiero. Diverso se si pensa in termini di presbiterio. In un tale orizzonte, si può immaginare di dover pensare per ogni ampia zona rurale o interna almeno un presbitero che abbia le qualità per esercitare un servizio di sorveglianza anche su un territorio piuttosto ampio, coadiuvato da confratelli che lo aiutano senza che tutti siano dotati ugualmente di uno sguardo di insieme e di una capacità di presidenza non presenzialista e non esercitata al modo della direzione e del controllo di ogni singolo aspetto. In questo, una sana differenziazione del clero, che è stata sempre presente in qualche modo nella storia della vicenda cristiana, può essere quanto mai utile, quando si pensi in particolare alle zone interne

1.2  Differenziazione e complementarità nel ministero ordinato

Esiste poi una seconda prospettiva, che potrebbe essere di aiuto a prospettare il ministero presbiterale nelle zone interne nel prossimo futuro. Essa è data dalle possibilità che si possono aprire da un’accoglienza più matura, teologicamente e pastoralmente, del ministero diaconale quale parte del ministero ordinato a tutti gli effetti, benché non sacerdotale, secondo quanto è stato sviluppato dal Magistero recente e puntualizzato anche dall’importante documento della Commissione Teologica Internazionale dedicato al tema. La sua esistenza ci dice che il ministero ordinato è a servizio del rimando alla radice apostolica, anche con questo ministero non sacerdotale e, pertanto, di un ministero che non contempla la presidenza dell’Eucaristia e della comunità.

Il problema è che in questi sessant’anni, nella pratica e talvolta nella stessa teologia, non si sono sviluppate tutte le potenzialità di un tale cambiamento, mentre si è stati spesso determinati da alcune ambiguità presenti nello stesso Concilio: come quella di indurre ancora a pensare ad un ministero di tipo fondamentalmente cultuale; e come quella, soprattutto, di pensare ai gradi dell’ordine in una visione gerarchica per la quale il grado inferiore è di fatto assorbito da ciò che è e fa colui che è investito del grado superiore. Ciò non ha permesso di pensare e tanto meno di avviare pratiche di esercizio del ministero diaconale, che possa essere davvero altro da quello presbiterale e complementare ad esso.

Se lo si facesse, si potrebbe cogliere l’opportunità che è data da un ministero che è di per sé plastico, più suscettibile di quello presbiterale di assumere forme diverse e rispondere ad esigenze diversificate.

In questa linea, si potrebbe pensare specie nelle zone rurali ad un ministero del diacono che – se si ha la persona giusta e competente – potrebbe davvero avere la responsabilità, sempre sotto la sorveglianza e la presidenza del presbitero, della gestione amministrativa ed economica di una vasta comunità di piccole parrocchie.

Oppure, si può pensare ad un ministero che faciliti la creazione e la cura dei legami tra le persone di una stessa comunità e la creazione e la cura del legame tra le comunità affidate alla presidenza di un solo presbitero. Già negli anni ’60 Karl Rahner vedeva soprattutto nella tessitura e nella cura delle relazioni e della formazione di una comunità umana il futuro del servizio caritativo del diacono. Egli osservava con acutezza come le parrocchie si fossero strutturate sulla base di preesistenti comunità civili, mentre ciò che si andava velocemente sfaldando era proprio l’esistenza del tessuto di relazioni di tali comunità. Cosa che si sta evidentemente verificando in maniera sempre più intensa nel contesto culturale attuale e che coinvolge, pur in un modo specifico, le zone rurali. Sarebbe interessante, in tal senso cominciare ad immaginare un esercizio del ministero ordinato in tali zone, sapendo di dover cercare candidati al ministero diaconale e sapendo che la presenza di diaconi potrebbe risultare utile a riformulare l’esercizio attuale del ministero del presbitero in molti aspetti, compreso questo ministero di tessitura di relazioni. In fondo, ciò che spesso è di ostacolo – nelle zone rurali – ad un mutamento del modo di vivere l’appartenenza ecclesiale è proprio un forte timore di perdere quel che resta della comunità civile a cui si appartiene. Il prete ne fa spesso le spese, a tanti livelli. Si può immaginare un ministero diaconale che, nell’impegno a tessere e curare le relazioni, prepari per così dire il terreno al servizio di presidenza del presbitero.

Roberto Repole, vescovo di Susa, e Felice Acrocca, vescovo di Benevento
Monsignor Roberto Repole, vescovo di Susa, e monsignor Felice Acrocca, vescovo di Benevento (Foto: Ucs Diocesi di Benevento)
3.3. Nuove ministerialità

Una terza prospettiva è certamente offerta dalla istituzionalizzazione di nuove ministerialità laicali. Alla luce delle riflessioni fin qui proposte, si può avanzare la tesi secondo cui alcune incompiutezze presenti nel Vaticano II abbiano di fatto favorito una prospettiva per la quale il prete si sente investito di tutta la ministerialità di cui necessita una Chiesa per esistere.

Mi sembra che il fatto di indurre a pensare il triplice grado del ministero ordinato secondo la visione che il grado maggiore finisce per assorbire il minore abbia certamente indotto all’idea che il prete si ritenga il detentore, a livello delle comunità parrocchiali, di tutte le ministerialità che, al limite, può delegare secondo il suo beneplacito. Dall’altro lato, ci sono nello stesso Concilio dei richiami a possibili altre ministerialità laicali. È il caso di dell’incipit di L.G. 18, laddove si parla di vari ministeri istituiti da Cristo, anche se – come nota Philips nel suo commento – si rimanda ad altri momenti per parlare di doni carismatici. Non vi è tuttavia una trattazione diffusa nel corpus conciliare e questo può aver prodotto una certa lentezza a prendere confidenza con la necessità strutturale di altri ministeri.

Oggi mi pare una strada percorribile, per meglio evidenziare che il ministero della presidenza non è assorbimento di ogni ministero di cui necessita la Chiesa. Ciò può rappresentare una risorsa importante, specie nelle zone interne e rurali.

Si tratta di qualcosa che ogni Chiesa locale può e deve strutturare. Quel che mi pare importante è che avvenga una istituzionalizzazione di alcuni ministeri, in modo che si renda evidente in maniera sempre più chiara a tutto il popolo di Dio che quello del prete non è l’unico ministero esistente. Si può pensare al ministero dell’accolitato, in particolare, come quello della cura e della vicinanza a tutte le persone anziane e malate, che non possono prendere normalmente parte alla vita delle comunità cristiane. Un ministero che, in quanto tale, è occasione di incontro e di contatto con intere famiglie. Si può pensare al ministero del responsabile e coordinatore della catechesi, immaginando persone che si prendono in carico la responsabilità di gestire la catechesi (non solo quella dei bambini e dei ragazzi!) in ogni comunità cristiana e in gruppi di comunità. Si può pensare soprattutto al ministero di guida di comunità, laddove il prete non è residente.

Alcune attenzioni mi parrebbero decisive. Insieme al fatto che vi sia una vera e propria istituzionalizzazione, per le ragioni suddette, è indispensabile che vi sia l’istituzionalizzazione di un percorso formativo e un processo di discernimento che non coinvolga soltanto il prete o i preti delle comunità interessate, ma responsabilizzi in qualche modo la Chiesa locale e il suo vescovo. Oltre ciò mi parrebbe importante che tali ministeri vengano concessi a tempo, affinché ad accedere ad essi non siano soltanto delle persone che si sentono di spendere l’intera loro esistenza e, soprattutto, al fine di evitare che vengano bloccate nuove corresponsabilità. Per quel che concerne il ministero di guida di comunità laddove il prete non è residente, mi parrebbe importante che si tratti non tanto di un singolo ministro, bensì di un gruppo ministeriale. Ciò potrà aiutare a rendere evidente che non si ha a che fare con un ministero che sostituisce quello della presidenza, la quale è riservata al presbitero.

Trattandosi di ministeri istituiti, con un mandato chiaro di responsabilità e sempre sotto la presidenza del presbitero, essi possono costituire una possibilità per immaginare forme nuove del ministero del presbitero nelle zone rurali, senza annullare il suo servizio di presidenza che si esprime e si visibilizza nella presidenza della celebrazione eucaristica.

3.4 Analogie virtuose con il ministero episcopale

Ho tralasciato volutamente di parlare di altri ministeri più strettamente correlati all’ambito amministrativo ed economico, perché mi sembra che qui si possa fare tesoro di una analogia con ciò che già l’attuale CIC prevede in relazione al ministero di presidenza del vescovo. Penso in particolare a due figure, quella del cancelliere e quella dell’economo diocesano.

Il canone 482.1 indica l’obbligo della costituzione della figura del cancelliere. Nel commento offerto dalla Redazione di Quaderni di Diritto Ecclesiale si dice: «E’ obbligatoria in ogni curia la costituzione dell’ufficio del cancelliere, il cui compito principale consiste nel redigere e custodire gli atti della curia, emanati cioè da chi è soggetto di potestà esecutiva ordinaria (…): in questo senso anche gli atti emanati dal vescovo, in quanto ordinario, sono atti della curia»[1].

Pur nella consapevolezza che in questo caso l’analogia implica davvero una profonda dissimilitudine, si può però ipotizzare che tutto il servizio riguardante il lavoro di ufficio e la preparazione e gestione dei documenti necessari a vari livelli, sul piano parrocchiale o anche interparrocchiale, possa essere svolto da una persona investita di un ministero proprio e, per ciò stesso, riconosciuta dall’intero popolo di Dio. Al presbitero potrebbe spettare qualcosa di simile al compito che spetta al vescovo rispetto ai documenti della diocesi che, nel caso della presenza di un cancelliere efficiente, è davvero ben poca cosa e si limita spesso solo ad una sorta di supervisione.

Un’analogia ancora più stretta si può invece immaginare a proposito del compito amministrativo ed economico. Il canone 494.1 afferma quanto segue: «In ogni diocesi, dopo aver sentito il collegio dei consultori e il consiglio per gli affari economici, il Vescovo nomini un economo; egli sia veramente esperto in economia e particolarmente distinto per onestà». Il commento che i canonisti di Redazione offrono all’intero canone può essere istruttivo nella prospettiva di immaginare un servizio analogo a livello di una parrocchia o, pensando alle zone rurali, soprattutto a livello interparrocchiale. Essi affermano infatti: «L’ufficio dell’economo diocesano è una figura giuridica nuova e obbligatoria. Per la nomina, il vescovo deve sentire ad validitatem (…) il CDAE e il collegio dei consultori. Deve possedere competenza in materia economica e distinguersi per rettitudine personale. Può essere chierico o laico (uomo o donna). (…) All’economo spettano compiti esecutivi relativamente alla conduzione concreta dell’amministrazione, sia ordinaria che straordinaria, dei beni della diocesi. Egli è soggetto da un lato all’autorità del vescovo, che ne è il responsabile ultimo, dall’altro alla funzione di indirizzo e di controllo del CDAE. Spetta all’economo redigere ogni anno il bilancio consuntivo della diocesi»[2]

Se si prende sempre più atto che esiste la possibilità di un Diritto diocesano, forse troppo poco sfruttata, si può immaginare la decisività di istituire nelle zone interne, con una normativa adeguata, figure ministeriali analoghe a quel che l’economo è sul piano della diocesi. Si tratta di individuare cristiani dotati della giusta ed adeguata competenza, in un confronto previo con il consiglio o i consigli per gli affari economici della parrocchia o delle parrocchie e affidare ad essi il compito dell’amministrazione concreta. Anche in questo caso si può pensare che il consiglio o i consigli per gli affari economici siano chiamati a offrire un servizio di indirizzo e di controllo. Allo stesso modo si può ipotizzare che il presbitero eserciti la sua autorità, senza che questa si concretizzi nell’occuparsi concretamente dell’amministrazione o delle scelte e della conduzione dei lavori di volta in volta necessari; ma sia, appunto, una autorità di episcopè, di sorveglianza perché tutta la dimensione economica ed amministrativa, pur godendo della giusta autonomia, non venga intesa e condotta con criteri altri da quelli evangelici ed ecclesiali e rimanga pertanto a servizio di ciò che la Chiesa è e della missione che è chiamata a svolgere.

Conclusione

Sappiamo bene che una delle grandi sfide che come Chiese stiamo vivendo è quella di ripensare alla forma della nostra esistenza in un contesto di fine del regime di cristianità, che ci vede sempre più quale minoranza. La forma di una presenza capillare a copertura di ogni angolo di territorio è oggi non rispondente più alla realtà, per diversi motivi: la contrazione numerica dei cristiani e, quindi, anche dei preti; la fine della civiltà contadina, che implicava una certa stabilità nei luoghi di residenza.

Si apre la necessità di nuove forme di presenza, specie nei territori interni. Cosa che implica un modo nuovo di concepire il ministero dei presbiteri.

La proposta abbozzata tiene conto dei mutamenti in ciò già in atto, cercando di intravvedere nuove possibilità. Nel farlo si è però cercato di non perdere i guadagni riguardanti il ministero che la teologia ci consegna e di vigilare sulle possibili derive che hanno la loro radice in alcune incompiutezze teologiche o in troppo facili retoriche ecclesiastiche.

Il punto dirimente mi pare quello di non smarrire l’importanza di un ministero di presidenza dei presbiteri nell’orizzonte di una episcopé, senza per ciò sentirsi costretti a pensarla nella forma del sequestro e dell’assunzione di ogni possibile ministerialità.

[1] Codice di Diritto canonico commentato, p. 437.
[2] Ibidem, pp. 446-447.





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