È possibile che la cenere diventi fuoco?

Il testo predisposto da Sua Eminenza il cardinale José Tolentino de Mendonça, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, per il ritiro del presbiterio diocesano previsto per questa mattina ma annullato per l'emergenza Covid19

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Pubblichiamo il testo predisposto da Sua Eminenza il cardinale José Tolentino de Mendonça, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, per il ritiro di Quaresima al Vescovo e al presbiterio diocesano, che era previsto per questa mattina. 

È POSSIBILE CHE LA CENERE DIVENTI FUOCO?

La Quaresima coincide con l’irrompere della primavera. Più o meno timidamente, sembra che la natura vinca la letargia dell’inverno. E si cominciano a scorgere i segni di questa fioritura. È straordinario pensare alla vitalità che porta i tronchi spogli a scommettere nel ritorno alla stagione delle foglie e dei fiori! Impariamo molto sulla vita interiore guardando, per esempio, gli alberi. Mi piace pensare a essi ricordando una nota frase del designer italiano Bruno Munari: «L’albero è un seme che cresce pian piano e in silenzio ».
La Quaresima è un tempo simbolico, a cominciare dal nome. Quaresima viene da Quaranta: quaranta sono stati gli anni che il popolo di Dio ha trascorso nel deserto per preparare il suo ingresso nella Terra Promessa – Es 16, 35; e quaranta sono stati i giorni in cui Gesù si è preparato per la sua missione – Lc 4, 1-13. Anche noi abbiamo i nostri quaranta giorni di preparazione alla Pasqua. Chiaramente questo è un tempo nel quale si intensifica il nostro vivere cristiano, trasformando questi pochi giorni in un’opportunità di Grazia.
È così facile cadere nel pessimismo oppure navigare nel pragmatismo acritico. La Quaresima arriva per smuovere le acque, mettere in questione certezze, interrompere disfattismi. «Come può nascere un uomo quando è vecchio?», chiedeva Nicodemo. Gesù gli rispose: «In verità, in verità ti dico: Chi non nascerà dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel Regno di Dio ... Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto» (Gv 3, 5-7). Soltanto accettando la sfida profonda e concreta che la Pasqua di Gesù rappresenta per la nostra vita ci permette di celebrarla veramente.

Le tentazioni di Gesù: dalla nostra sete alla sete di Dio
Volgiamo gli occhi su Gesù. Le tentazioni che i Vangeli raccontano in una pagina certamente non si produssero in quella giornata soltanto. Lo accompagnarono lungo tutto l’arco della sua esistenza. Credo che noi possiamo immaginare, e senza troppo giocare di fantasia, le voci
contrastanti che avrà udito lungo la sua vita, le pressioni che avrà avvertito, il conflitto interiore, i dilemmi che lo attendevano al bivio, il peso insostenibile delle aspettative di chi lo voleva re, chi taumaturgo, chi un manovrabile tappabuchi, chi un facile messia, ecc. Le tre grandi formulazioni che troviamo nel racconto delle tentazioni riassumono quello che Gesù andò soffrendo, e al tempo stesso segnalano quelle turbolenze fondamentali che sono comuni alla condizione umana. Le riprendiamo nella versione di san Matteo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”. Allora Gesù gli rispose: “Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (Mt 4,1-11). Le tre tentazioni di Gesù sono emblemi della nostra sete, ma soprattutto della sete di Dio che egli accende in noi rivelandoci la sua immagine, il suo volto.

E allora di cosa viviamo?
Concentriamoci sulla prima: «Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla
bocca di Dio”». A prima vista non potremmo essere d’accordo più di così con Gesù. «Non di solo pane vive l’uomo» è peraltro un’evidenza condivisa. Possiamo percorrere la storia del pensiero, la storia della cultura, e non troveremo nessuno che lo neghi. Nemmeno i più pessimisti sul senso dell’essere umano, nemmeno i più materialisti. Ma il problema che Gesù pone non è soltanto che il pane, o la materialità della vita nel suo complesso, sia insufficiente. La parola di Gesù ci porta più lontano, dal momento che ci obbliga a confrontarci con quello che ci fa vivere. Non viviamo di solo pane. E allora di che cosa viviamo, oltre al pane? Gesù ci mette davanti alla domanda ineludibile, lasciandola aperta perché ci contempliamo in essa come chi si studia allo specchio: di che cosa abbiamo sete, e che cosa veramente sazia la nostra sete? In questo modo Gesù rilancia la questione di fondo dell’essere umano, questione che non si riduce alla lotta per la sopravvivenza né si spiega solamente con essa. L’essere umano è di più. La vita è chiamata a essere di più. Né la fame né la sete possono servirci di scusante per non essere umani. Gesù apre un orizzonte che il tentatore tenta di chiudere. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Non si tratta di opporre il pane alla parola, i valori materiali ai valori spirituali o la vita terrena alla vita di Dio, come a volte certi discorsi devoti e ben intenzionati pretendono di fare. L’uomo non può vivere senza pane, non può rinunciare alla cura materiale che garantisce la sua sussistenza. Anche questa è la sua realtà. Gesù stesso vi venne incontro nei racconti di moltiplicazione dei pani (Mc 6,34-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-38; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15). La fame e le necessità materiali umane non gli sono indifferenti. Quando Gesù si rivolge a noi ponendoci la domanda su ciò di cui viviamo oltre al pane, non è per farci evadere dalla realtà del pane, ma per farcela considerare come un luogo che deve essere investito dallo Spirito. Egli stesso ci mostrerà come si fa, quando prenderà il pane dicendo: «Mangiate questo pane che non è solo pane; che è il mio corpo, il dono totale della mia vita consegnata per voi». Se il nostro pane sarà più che pane, se si lascerà attraversare dalla parola che esce dalla bocca di Dio, guadagnerà una potenza che il semplice pane non possiede e potrà diventare cibo per molte fami. Ma noi, di che cosa viviamo? Qual è la nostra vera fame, la nostra vera sete? Dov’è che esse cessano? Dove ci conducono?

Amare Dio per quello che ci toglie
Guardiamo la seconda tentazione: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Nel suo libro Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha scritto che il significato di questa tentazione è il più difficile da cogliere. C’è un elemento strano, paradossale, nella strategia del diavolo, che qui si mette ad argomentare con la Scrittura stessa neanche fosse un raffinato professore di teologia. Cita il Salmo 91,11-12: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli […] essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra». Gesù viene tentato con la parola di Dio e con il suo contenuto ultimo. Ma il senso vero di questa tentazione viene di nuovo chiarito dalla parola di Gesù, che cita il passo del Deuteronomio «non tenterete il Signore, vostro Dio» (Dt 6,16). È interessante ricordare il passo completo: «Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa». Che cosa accadde a Massa? Avvenne la cosiddetta ribellione della sete. Nell’attraversare il deserto, il popolo litigò con Mosè esigendo: «Dacci acqua da bere!». E rivoltò contro il Signore per metterlo alla prova rumoreggiando: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17, 1-7). È come se Dio dovesse sottostare alle condizioni che noi stabiliamo essere necessarie per poter credere in Lui. Se non garantisce la protezione promessa, e nel modo in cui noi vogliamo vederla assicurata, le certezze della nostra fede vacillano. Se non soddisfa immediatamente le nostre molteplici seti, restiamo storditi senza capire se lui stia in mezzo a noi oppure no. Ora, Gesù ci rivela che Dio lo si tocca nel silenzio di Dio. Gesù non si butta giù dal pinnacolo del tempio. Ma si getta dalla cima della croce in quella preghiera in forma di grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Per credere, noi vogliamo vedere la nostra sete soddisfatta. Gesù ci insegna a consegnare, come preghiera, il silenzio, l’abbandono e la sete. Noi vogliamo amare Dio per quello che ci dà. Un poco per volta, però, impariamo come questo modo di vedere sia un luogo di tentazione. Madre Teresa di Calcutta diceva: «Voglio amare Dio per quello che mi toglie».

Che cosa il potere ha fatto di me?
La terza tentazione è il culmine del racconto. Il demonio e il lungo elenco di idoli che assieme a lui ci circondano esigono sempre che ci prostriamo a loro in adorazione. Vediamo il testo evangelico: «Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”. Allora Gesù gli rispose: “Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano». Occorre accostare questo brano del capitolo 4 di Matteo, posto come un portale all’inizio della vita pubblica di Gesù, alla scena finale del capitolo 28 (28,16-20), quando Gesù è già passato per la croce e si presenta come il Risorto: «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”». I parallelismi sono flagranti. In entrambe le scene lo spazio geografico è un monte. In entrambe, il motivo è quello del potere: il potere di tutti i regni del mondo con la loro gloria, che il diavolo insinua di avere la facoltà di assegnare, e la parola di Gesù che rivela che ogni potere in cielo e in terra gli è stato dato dal Padre. E ancora, la questione dell’adorazione: il diavolo vuol essere adorato da Gesù, ma è Gesù che alla fine sarà adorato dai discepoli, anche se alcuni ancora dubitano. Il potere del diavolo è quello della doxa, della gloria momentanea che si dissolve. Il potere del Risorto è quello che fa parte del mistero della croce, ossia lo spogliamento radicale, l’offerta estrema di sé. Come dirà l’inno della Lettera ai Filippesi: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Il culto del potere, qualunque esso sia, fa del potere un idolo. Fa diventare il dominio e il possesso la presunta fonte di felicità e di senso, riducendo a questo l’orizzonte del significato della vita. Un cristiano deve sempre chiedersi non soltanto «che cosa io faccio del potere che detengo o che mi è stato affidato?», ma anche: «Che cosa il potere ha fatto di me?». È un rischio enorme, quando la tentazione del potere, su scala più o meno grande, ci allontana dal mistero della croce. Quando smette di essere chiaramente un servizio ai fratelli e si tramuta in delirio di autoaffermazione e di autoreferenzialità. Non dimentichiamo che Gesù si rifiutò categoricamente di inginocchiarsi a Satana, ma volontariamente s’inginocchiò davanti ai discepoli per lavare loro i piedi (Gv 13,4-5). Gesù cita nella risposta a Satana un comandamento della legge di Dio: «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo – parola che Gesù introduce citando a memoria il testo del libro del Deuteronomio – renderai culto» (Dt 6,13). Rendere culto a Dio, e solo a lui, come Gesù sottolinea, rappresenta un esercizio di libertà. E, al tempo stesso, la capacità di cuore di dire agli altri: «Io sono qui per servire». In effetti noi siamo niente più che «stranieri e pellegrini» (cfr. Eb 11,13; 1Pt 2,11) sulla terra, chiamati alla condivisione dei doni di Dio.

Scarica il testo del cardinale de Mendonça

Rendiamo disponibile anche l'intervento del teologo Boselli presentato al ritiro di febbraio e dedicato a Liturgia  e Presbiterio

Scarica il testo di Boselli


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